lunedì 12 dicembre 2011

Dal 1922 al 1952, i tre periodi del rebetiko

 Testo di Ilias Petropoulos, tratto e tradotto dal libro Rebetika tragoudia, prima edizione del 1968, Atene

Dal 1922 fino al 1952


Fuga da Smirne, 1922.

L’ultimo grande spostamento di popolazioni tra Grecia e Turchia,  è avvenuto nel 1922 (La Katastrofì). I greci che abitavano le città e le coste dell’Asia Mino­re, avevano già abitudini borghesi e poche tradizioni. Da profughi sono stati i principali diffusori dei rebetika insieme con i carcerati, gli hassiklides (fumatori di hascish), e i soldati. Dal 1922 fino al 1932 escono  dischi con nome o  pseudonimo del compositore, con famose (per l’epoca) cantanti (Marika Politissa, Rita Ambatzi, Rosa Askenazi), con san­turi, violini, e outia. Queste canzoni erano dette di stile arapiko o anatolitiko (anche Hiotis ha composto anatolitica più tardi) e la provenienza da Smirne era resa molto evidente.

Rosa Eskenazy con 
Mitsos Memsis( violino) e Agapios Tomboulis (tabur), 1932

Solo trent’anni è durato il periodo d’oro del rebetiko: dal 1922 al 1952 circa, suddiviso in tre periodi.
Nel primo decennio si affermò lo stile smirneiko, della città di Smirne ma nessuno dei compositori conosciuti all’epoca (Paul, Eitiziritis, Dragatsis, Marinos, Karipis) divenne famoso. Nel secondo periodo (1932-1940) gli outia hanno fatto posto a buzukia e baglamades, e le cantanti dei  kafè-aman ai “severi” cantanti dei tekedes che erano contemporaneamente composi­tori, parolieri e virtuosi del buzuki. Fu allora che il rebetiko, con classica semplicità, ha svelato il genuino mondo dei margini. 

 Il famoso quartetto di Pireo: Vamvakaris, Delias,Batis, Paghiumtzis,
Nel secondo periodo, che è l’epoca d’oro del rebetiko, periodo classico, emerge il rispettabile Markos Vamvakaris, grande cantante popolare, compositore e strumentista. E accanto a lui Tountas, Baianteras, Batis, Anestis Deliàs (che è morto giovanissimo), Stratos Payumtzis, Morfetas, Hatzihristos, Peristeris, Papaionanou.
Alla fine, il terzo periodo o laikò rebetiko (1940-1952) è l’epoca in cui Tsitsanis ci ha regalato le sue migliori canzoni, dove Markos (Vamvakaris) cantava Tsitsanis e Hiotis, suonava il buzuki nel disco di Harma. Era l’epoca della fame, dei forni crematori, degli spari e del terrore e di tutto ciò il rebetiko non ha cantato perché era ancora all’inizio. Non ha potuto però evitare di risentire la tragedia del periodo. Vassilis Tsitsanis è il mago di quel periodo, che fa si che il rebetiko diventi popolare, che ha parlato d’amore con la tenerez­za di una fanciulla, che ha pianto di nascosto per tutti quelli che sono caduti negli incroci sotto i colpi dei traditori, che suonava il buzuki in modo perfetto. Allora, Tsitsanis insieme a Mitsakis e a Hiotis hanno scelto nuovi cantanti con voci che ricordavano pescatori, muratori e verdurieri. Tsitsanis ha abbandonato definiti­vamente l’outi, il santuri e la mandola (la mandola la suonavano Tountas e Tsitsanis quando era ragazzo) usando nelle sue vecchie canzoni solo il buzuki e la chitarra. 

 Vasilis Tsitsanis
Inoltre Tsitsanis ha arricchito il rebetiko con taksimia (accordi, scale, melodie) complessi e difficili da suonare,  è stato il primo ad autonominarsi  nelle sue canzoni, ha cantato le pene d’amore, ha lasciato da parte le rime facili, ha scritto un vero e proprio inno panellenico – la “sinefiasmeni Kiriaki” (Domenica nuvolosa).
Le canzoni di Tsitsanis erano melanconiche, gentili, virtuose e sacre.
Ognuno di questi periodi (smirnèiko, classikò e laikò)  ha il suo stile e ogni stile si distingue chiaramente dall’altro.

Sul divertimento

Alla radice del (buono o cattivo) rebetiko, si trovano le cause, i modi e i luoghi del divertimento. Il maghas fa la passeggiata (seriani o tsarka) al mattino o al pomeriggio. Però le sole ore che contano sono quelle serali, alla taverna. Taverne e locali simili sono conosciute anche nel canto dimotico. La mescita di vini era luogo di bevute. La festa paesana (panighiri), la fontana del paese, la locanda, erano luoghi di vita all’epoca del canto dimotiko. Nella festa del dimotiko si mangia e si beve, mentre in quella del rebetiko si beve soltanto. Festa senza bere non si fa. Il bere nel dimotiko è festa collettiva, però i rebetes bevono e fanno festa per liberarsi dall’ama­rezza. Cercano l’oblio. Una noia mortale stringe le città. La festa del paese era festa popolare nella piazza (panighiri) o nel cortile della casa (gamos, matrimonio), durava almeno un giorno di danze saltellanti, molte voci e risate, con danzatori orgogliosi che volavano in aria, con spari e boati, era una vera gioia di vivere.I rebetes fanno festa nelle taverne, di notte, seduti, quasi melanconici, con improvvisi scatti rompono piatti, o cercano rogne, ballano piegati e allora battono la terra assorti. La festa moderna dura poche ore. Una festa del secolo scorso (XIX) durava da uno fino a sette giorni. Nelle feste di campagna del XVII secolo, c’era ordine, una serie di riti, rispetto dello spirito collettivo, danza collettiva, canto collettivo, tavola comu­ne, infinite offerte da un tavolo all’altro, qualcosa di analogo presentano quadri di pittori stranieri che rap­presentano feste neoelleniche degli ultimi secoli o anche feste dell’europa occidentale (kermesse). Adesso ognuno fa festa con se stesso, rinchiuso in piccoli gruppi in mezzo a sconosciuti, disadattati, senza sentire né vedere. Nella festa del rebetiko regna l’egoismo, l’assenza di organizzazione. C’è una differenza sostanziale tra la “gioia” (kefi) della festa aperta delle campagne dal gruppo chiuso della taverna. Temporalmente, il panighiri avveniva nel passaggio tra una stagione e l’altra. Il rebetis invece fa festa per fuggire dalle noie personali cercando la compagnia per comunicare le sue amarezze
 “ferte mia kupa me krassi ke kante mu parea”
“portate un bicchiere di vino e fatemi compagnia”
I canti rebetika e la danza zeibekiko sono espressione di questa amarezza della vita. Tutto è espressivo in un magha, come si siede, come invoglia l’amata
(“spasta re Mariò, ke ta plirono ego”
“rompi tutto re Maria, pago tutto io”)
come si alza e come piega la testa, come fuma, lo sguardo obliquo, come litiga. Di solito il rebetis finiva la festa all’alba, tornando a casa o in macchina o in calesse.

mercoledì 12 ottobre 2011

Jacques Lacarrière : Rebetika tragùdia


 
Se dovessi dire in una sola parola quello che, nel corso di questi anni passati in Grecia, è stato per me l’aspetto rivelatore (quello che porterei con me su un’isola deserta), direi: rebetika.
Ho citato più volte questa parola, senza spiegarla analiticamente. Ma non posso parlare in modo distaccato di questi canti così caratteristici che sono, ancora oggi, uno degli esempi più chiari di una civiltà popolare vivente.

Monte Athos


Non è mia intenzione, in questa sede, riassumerne la storia (d’altronde in parte sconosciuta) e neanche farne un acritico panegirico; perché si tratta, principalmente, di canti e danze di cui nessuno scritto saprebbe sostituire l’ ascolto e la visione. Queste melodie sono legate ai miei anni in Grecia e accompagnano sempre, nella mia memoria, ognuno dei miei soggiorni in questo paese. Il 1950 è per me l’anno di Creta e del Monte Athos, ma anche quello di “Ase me, ase me, na se lismoniso”, - “Lasciami, lasciami, dimenticarti” – di Tsitsanis. Il 1952 è l’anno del Monte Athos, di Salonicco, di Mikonos ma anche di “Ghennitika ja na pono”. – “Sono nato per soffrire” – anche questa di Tsitsanis. Il 1953 è l’anno di “ime békris kai batiraki” – “Ubriacone e senza un soldo” – di Mitsakis, penso.

Parlare dei rebetika, cioè delle canzoni dei rebetides – parola che si dovrebbe ormai saper tradurre ma che si sottrae come pallikari, levèndia, philotimi, kaimos, meraki e tante altre, diciamo che Rebetis significa (in greco) un uomo dei bassifondi, un uomo del “milieu” o semplicemente del sottoproletariato urbano: signi­fica un uomo povero ed emarginato, un uomo dello strato infimo della società, chiarendo subito che si tratta del significato e del valore borghese del termine.
Precisamente, il rebetiko rivalorizza il termine ipocosmos per farne il vero mondo (il mondo dove conoscia­mo la vita, la sofferenza, la realtà, in contrasto con il mondo convenzionale e falso della borghesia e dell’in­tellighenzia).

Alla fine, poter dire qualcosa sugli zeibekika, le danze che accompagnano questi canti, i buzukia e i bagla­mades, gli strumenti che sono loro associati insieme a tutto il mondo che ruota intorno a queste canzoni e a questa poesia popolare (la taverna, il vino, la miseria, la notte, la morte, la prigione, i porti, l’hashish, il narghilè, il deke e la mastoura), vorrebbe dire raccontare in pratica mezzo secolo di storia greca.
Considero queste canzoni altrettanto belle, altrettanto profonde ed emozionanti dei più bei blues con i quali d’altronde presentano così tante somiglianze (l’unica, la sola grande differenza è che le origini del blues sono rurali mentre il rebetiko da sempre è stato la musica della città. I principali compositori popolari greci dei rebetika – Tsitsanis, Vamvakàris, Daskalàkis, Mitsàkis, Papaioànnu, Màthesis, Bàtis – sono sullo stesso livello dei più grandi compositori blues come Armstrong, Fals Waller e Sidney Bechet. La storia del blues è conosciuta. La storia del rebetiko non è stata ancora scritta ma sono sicuro che un giorno sarà scritta – da stranieri o da greci – perché si tratta di una creazione popolare di valore universale.(da quando ho scritto queste righe, la storia del rebetiko è stata scritta da un amico greco – Ilias Petropoulos – nel bellissimo libro edito ad Atene “Ta rebetika tragoudia”).

Sfortunatamente, il rebetiko, si è evoluto molto più velocemente del blues: principalmente a causa dell’in­fluenza del turismo, che in pochi anni ha modificato i luoghi, l’ispirazione e il modo di orchestrazione di queste melodie, così che il suo periodo autentico, quello in cui sgorga da solo dalle bocche e dalle dita dei compositori popolari, non dura più di mezzo secolo. Diciamo che i primi rebetika, con ritmi, atmosfere ed esecuzioni definite che non cambieranno successivamente, sono del 1920 circa. Prima esistono delle melo­die anticipatrici: i karsilamàdes di Smirne, gli hassapika di Costantinopoli, di Ponto, di Brussa e Aivali, gli amanédes detti “politici”(1). Esistono cioè dei luoghi di cui il rebetiko conserverà certi elementi (tra i quali, l’uso del­l’espressione aman-aman che ancora oggi, ogni tanto, si sente ancora) ma il rebetiko non ha oggi più di mez­zo secolo di vita – una vita oscura, per un lungo periodo, confinata nei bassi fondi del Pireo, di Salonicco, di Galaxidi e Kavala, prima di essere scoperto dall’intellighenzia e da certi snob della borghesia ateniese. Ne parlo qui con una certa precisione perché sono stato testimone di questa riscoperta del dopoguerra. E quindi sono costretto, ancora una volta, a parlare di me.



Nel 1950, facevo l’autostop da Atene a Salonicco, perché volevo andare sul Monte Athos. All’uscita di Larissa, dopo una breve visita a Meteora, mi ha caricato un camionista che andava a Salonicco. All’ora di pranzo ci siamo fermati a mangiare qualcosa in una piccola taverna, di strada, vicino ad un paese o piccola città di cui adesso non ricordo il nome. Abbiamo mangiato tranquillamente e aspettavamo che calasse un po’ il caldo afoso prima di continuare il viaggio. Al tavolo vicino erano seduti e mangiavano un gruppo di muratori. Uno di loro si alzò e mise un disco a 78 giri su un vecchio grammofono. Era un disco tutto rigato, messo e rimesso centinaia di volte, da cui usciva una voce nasale e lamentosa che, all’inizio, mi dava sui nervi.
Un uomo si alzò e iniziò a ballare. Da solo. Quasi immobile, senza una consequenzialità evidente nei passi, muovendo lentamente il corpo, con qualche rara giravolta, delle semplici figure che sembrava improvvi­sasse. Il camionista si rivolse a me e con quel gesto abituale della mano, che in Grecia esprime il piacere e la cosa bella – la mano tesa e le dita unite verso l’alto – mi dice: zeibekiko! La parola mi sembrò turca e non vi ho dato molta importanza. Dopo un po’ un operaio, vedendo che ero straniero, mi prese la mano e mi fece ballare. Ripetevo, come potevo, i movimenti.
Abbiamo ballato così per quasi due ore senza accorgerci che si era fatto tardi. Questo fu il mio primo – e insicuro – incontro con il rebetiko. Nasale, languida, lamentosa: era “Ase me, ase me, na se lismoniso” la canzone più in voga di quell’anno. Dopo quella volta ho ballato dappertutto (per riassumere ciò che divenne in seguito più di un legame duraturo, una vera passione carnale per la musica, la danza, tutto ciò che cono­sce e prova il corpo nello zeibekiko), in tutta la Grecia, in ogni occasione... nelle isole, nei porti, nei caffè del Pireo, a Perama, a Menidi (sotto il monte Parnitha) e a Salonicco vicino ai mercati generali. In quegli anni, questi posti, queste piccole taverne, non erano ancora frequentate dagli intellettuali snob di Atene. Solo pescatori, camalli, camionisti, rebetes e maghes – come vengono anche chiamati con un termine quasi intraducibile. E così, a poco a poco, mi sono imbevuto di tali melodie e di questi balli. Ho imparato a ballare come ballano i greci, per se stessi, per la gioia di esprimere con il corpo liberamente quello che ispira loro la musica, il ritmo, le parole (tra l’altro ho sempre avuto una predilezione per i rebetika lenti e severi, che tanto assomiglia­no ai canti funebri e rituali).
Una cosa mi ha fatto impressione. Quando, dopo il viaggio al Monte Athos, sono tornato ad Atene e ho parlato con i miei amici greci della scoperta del rebetiko, tutti hanno avuto la stessa reazione: è una musica da orsi! Musica popolare! Non voglio essere duro e fare dei nomi, ma molti degli amici di allora – pseudo artisti per lo più – oggi non parlano d’altro che di buzukia, come tutti gli snob che vanno a stiparsi nelle taverne – costruite e rifatte appositamente per loro.
Tutto ciò non ha molta importanza, ma trovo sempre divertente, nonchè appassionante, essere testimone della nascita di una moda, o di un interesse più serio. Per me la conoscenza dei rebetika è stata casuale. Me li ha fatti conoscere la man­canza di denaro, costringendomi per molti anni a vivere con i camionisti e i pescato­ri, a frequentare le taverne popolari e i piccoli caffè dove con cinque dracme mangiavi agnello al pomodoro e con tre dracme un piatto di musakà, sorta di pasticcio di melanzane ripiene, e con due dracme una porzione di pesciolini fritti. Sempre la mancanza di denaro ha fatto sì che io dormissi negli alber­ghetti di dubbia fama del Pireo – dove con 15 dracme avevo stanza e compagnia di numerosi scarafaggi – o quelle locande dormitorio, dietro piazza Omonia, dove con cinque dracme avevi un posto letto in uno stan­zone da otto-dieci posti. Sono entrato nel mondo dei rebetiko dalla porta stretta della povertà. Povertà che mi ha fatto scoprire la Grecia con il sentimento di una libertà indicibile.
Per me, prima di tutto, il rebetiko è questo: un’atmosfera e una canzone insieme, volti silenziosi e caratteri­stici al tempo stesso, confusi con voci e danze, odori mischiati di ouzo, retsina, segatura e cicche schiacciate. Più tardi, con l’imbastardimento, dovuto al turismo, queste piccole taverne hanno cambiato volto: vetrine al neon piene di aragoste surgelate, prezzi inavvicinabili, piatti e bicchieri apposta per essere rotti dai clienti che gridano “hopa” con aria stanca per far vedere che si divertono un sacco. Il rebetiko non è morto. È morta, invece, un’epoca, - e una verità. Prova ne sia il fatto che, a parte il buzuki, nessun altro strumento originario viene usato oggi, né il sazi né il baglamas, né il taburas né l’outi. Tutti sono stati sostituiti dalla chitarra e dall’accordeéon, dal violino e dal piano.
Nella loro storia presunta – come inizia a delinearsi e se ne possono trovare delle tracce in Grecia – il rebe­tiko e lo zeibekiko sono nati alla fine del XIX secolo nei quartieri poveri delle città dell’Asia Minore. Que­sta musica e questa danza sono principalmente fenomeni urbani. Non hanno quindi nessun rapporto con la musica tradizionale e folkloristica che è sempre di tradizione rurale.
I versi e la musica sono opera di artisti autodidatti e quindi composti da un preciso individuo conosciuto da tutti. Non ha importanza se dopo il suo nome diventa famoso e supera i confini di un caffè, del quartiere e della città, si tratta sempre di creazioni personali, non sono mai opere collettive o di anonimi.
Quando dico che i compositori, anche quelli famosissimi sono autodidatti, intendo dire che suonano da quando sono piccoli il loro amato buzuki o il baglamas e lo suonano ad orecchio, senza saper leggere le note. Tsitsanis può fare un arrangiamento orchestrale o trascrivere per se stesso quello che le sue dita improvvi­sano, ma Vamvakaris, uno dei più vecchi e dei più grandi, non ha avuto mai bisogno di leggere una nota sullo spartito (così almeno sostiene nella sua “Autobiografia”). È facile che dopo l’onda di curiosità suscitata dal rebetiko e la frequentazione di musicisti “acculturati” e famosi, come Hatzidakis e Theodorakis, che si ispirano a queste melodie, alcuni compositori abbiano iniziato a trascrivere ciò che una volta suonavano di istinto. Vamvakaris conosceva la musica in modo totalmente istintivo e da solo non avrebbe mai avuto l’idea di trascrivere le sue improvvisazioni. Come i vecchi cantastorie di una volta, era capace di suonare qualsiasi pezzo a memoria. Fortunatamente, grazie alle prime registrazioni dei rebetika intorno al 1920, conserviamo alcuni di questi capolavori che forse i loro stessi autori avrebbero potuto dimenticare. Perché tutti erano iper­produttivi e instancabili. È impossibile calcolare il numero esatto delle loro composizioni che superano per ognuno diverse centinaia. Il rebetiko, quindi, nasce nei quartieri greci delle città dell’Asia minore, principal­mente Smirne-Izmir, Aivali, Brousse-Bursa, Costantinopoli-Instambul, e altre ancora.
Gli strumenti che si usavano erano il buzuki, il baglamas, ma anche altri che oggi non si usano più – come l’outi o il sazi – che si suonavano ancora in Grecia negli anni ’30. Questi strumenti, come forma, assomigliano al mandolino, ma hanno registri diversi, soprattutto il buzuki che può avere più registrazioni, dal momento che ogni buzuki può avere dalle quattro fino alle dodici corde (di solito ne ha sei). Il prezzo di un buzuki può variare dalle 450 fino alle 20.000 dracme. Non esiste quindi il buzuki, ma buzuki e buzukakia. Inoltre, ogni registrazione produce un suono differente. Non so tradurre quel termine greco che usa Vamvakaris nella sua “Autobiografia” che sul tipo e lo stile del rebetiko, parte dal tipo “anihto” (aperto) fino al “karaduzèni” e il “Sirianò” (rebetiko grave) e fino all’“Arapiko” (l’Arabico) e lo Yurukiko, un altro tipo di rebetiko severo. Per parlare del rebetiko si ha bisogno di un dizionario particolare che qui non disponiamo.
E adesso il ballo (Choròs). Il ballo è indipendente dalla canzone perché uno può solo ascoltare senza ballare. Il nome zeibekiko, ci costringe di nuovo a tornare in Asia Minore e agli zeibekides. Erano greci e costituivano una specie di armata autonoma che sfuggiva al controllo dei turchi, i quali alla fine sono riusciti ad usarli dal momento che il loro sterminio è fallito. Erano più o meno 40.000 uomini nel secolo XIX. Erano, in un certo senso, nell’era turca il corrispettivo di ciò che i “kleftes e armatoloi” (2) erano nel 1821 per la Grecia; con la differenza che gli zeibekides non attaccavano particolarmente i turchi, ma agivano per conto loro. Un’intera mitologia è cresciuta intorno a questi indomabili guerrieri, che con le loro orde devastavano l’area di Smirne, Brusa e Aidinio. Marginali e seducenti – soprattutto per i Greci che avevano gli stessi usi e costumi, le stesse leggi, la stessa lingua (un dialetto locale greco), le stesse danze e canzoni. Il loro stile di vestizione era particolare e sensazionale. Portavano in testa un berretto dritto; e intorno al berretto attorcigliavano una sciarpa di seta, con frange che arrivavano fino alle guance. E guardando una vecchia litografia, penso che questo tipo di berretto sia uguale all’antico berretto di Frigia, il nome antico di quest’area dove agivano gli zeibekides. Portavano un gilet ricamato e pantaloni fino alle ginocchia. Fasciavano strettamente le gambe con strisce di stoffa. Ai piedi calzavano pantofole morbide di pelle. Come armi avevano una pistola, un machete (jatagani) e un coltello. Non facevano a meno di queste armi né quando dormivano né quando ballavano. Conducevano tra di loro una vita chiusa. Mangiavano carne affumicata e bevevano latte di cammello; fumavano continuamente hashish e non gradivano essere contraddetti. Così, possiamo forse immaginare come ballavano! Secondo un viaggiatore occidentale del XIX secolo, le loro danze erano danze di guerra, severe e lente, assomigliavano al Pyrichios choròs dell’area del Ponto, comunità greche del vicino Mar Nero. Quest’aspetto pesante, lento, in combinazione con lo stile minaccioso, spiegano in parte certi aspetti dello zeibekiko attuale. La lentezza che lo caratterizza, la giravolta e il ritorno, l’equilibrio misurato del corpo con le gambe immobili, sono forse l’espressione danzante della mastura, lo sballo ovvero l’ubriacatura dall’hashish.
Ma le cose più importanti nel rebetiko sono la musica e la poesia dei versi (che non si descrive con le parole).
Dopo la “catastrofe dell’Asia Minore”, sconfitta dell’esercito greco da parte di quello turco-ottomano, sotto la guida di Attaturk nel 1924 (dove un milione di greci della Turchia si rifugiano nelle isole dell’Egeo, vicine alla Tracia, e nelle periferie di Salonicco o Atene!), i profughi hanno portato in Grecia queste danze e queste canzoni. Lì si sono sviluppate e diffuse in un ambiente simile a loro, dove si parlava la stessa lingua, senza l’influenza turca.
Ci sono rime e dischi di quell’epoca eroica tra il 1920 e il 1940, che esprimono bene la nostalgia di quel periodo. Perché quello che dice colui che suona o che canta, il compositore autodidatta (o la cantante scelta) è il lamento profondo degli emarginati e dell’ipocosmo, una litania della miseria, un lirismo del sottoproletariato che con la danza e il canto, col vino e l’hashish, cerca di trovare l’unica possibile via d’uscita.
Il pianto e lamento continuo che così viene espresso ha un contenuto sociale e storico preciso. Si potrebbe scrivere una storia del sottoproletariato urbano ascoltando queste canzoni, la povertà, l’esilio e il confino e studiando la galera, l’amore sempre tradito o irraggiungibile, la deriva notturna per le strade, il rifugiarsi nelle taverne ombrose, la notte, l’hashish, il narghilè, la morte…. Ecco alcuni temi comuni del rebetiko.
Precisiamo che i rebetika sono sempre scritti in rima che la traduzione non può sempre rispettare. La canzone “Nichtosse choris feggari” (Una notte senza luna) (composizione di Kaldara del 1947) parla di un condannato. Di certo si tratta di un prigioniero politico della guerra civile – esempio sacro di rebetiko con toni politici.
La fuga del rebetis, del maghas sono il vino e l’hashish. Il primo, naturalmente, è più semplice. Di vino, di ubriacatura, di taverne parlano quasi tutti i rebetika, ma di un vino triste, nero e pesante, vino che bevi per dimenticare non per fare festa e cantare. Tsitsanis, uno dei maestri del rebetiko, lo esprime meravigliosamente in una canzone del 1950 nel “Otan pinis stin taverna kathesse ke then milàs” (Quando bevi nella piola senza dire una parola)…….
L’altra fuga, quella più legata alla storia del rebetiko, è l’hashish. Hashish fumavano tutti i frequentatori della taverna e del teké. Il teké era un caffè dove si fumava il narghilé. Due volte mi è capitato di fumare, senza però arrivare a quel punto, così tante volte descritto dai rebetika, della fase della mastura. Molte canzoni usano una serie di termini, vero e proprio piccolo dizionario, per descrivere le cose e la situazione psichica dell’hassiklis – parole che non si traducono. In più, dal 1944, la censura proibisce ogni riferimento all’hashish. Così, espressioni abituali, come cannabis, si sono sostituite con altri termini e piante. Farò qui un esempio di una tema famoso, lo ha scritto nel 1935 Robertakis e lo troveremo più avanti in molte varianti……..

martedì 27 settembre 2011

Kafè-aman, taverna e palco

Testo di Ilias Petropoulos, tratto e tradotto dal libro Rebetika tragoudia, prima edizione del 1968, Atene.



I kafè-aman

È vastissima l’influenza del kafè-aman e della taverna nella formazione e diffusione del rebetiko. Solo nelle città c’erano kafè-aman. Solo le società più evolute li accettavano. Hanno dominato la scena dal 1900 fino al 1930. Elementi distintivi: il palco, gli strumenti, una cantante e il ballo. Si ballava allora zeibekiko, kar­silamà, tsiftetelia, alegra, hassapiko. Famosi i kafè-aman di Smirne, Volos e Saloniko. Le cantanti dei kafè-aman erano, di regola, di Smirne o di Costantinopoli. Nei kafè-aman di Smirne musicisti rumeni suonavano l’arpa o il santuri. Agli smirniotes piacevano gli amanèdes(1). E nell’orchestra c’era anche l’armonica. I rebetika di Smirne erano cantati da una una donna o uomo con voce “riccia” accompagnati da lira, lauto, santuri e violino. Con l’avvento dei kafè-aman è cambiato l’ingaggio dei musicisti. Da musicisti nomadi in caccia di una serata, a ingaggi atipici che duravano una stagione, invernale o estiva.


 Taverna e palco
La parola taverna non è nuova. La incontriamo in certe rime e altre canzoni popolari.
 
“Se ti taverna vriskete se ti taverna pini”
(in quale taverna si trova in quale taverna beve)

Nella famosa canzone di Menussis troviamo la parola krassopulio (mescita di vini). Nei rebetika ci sono molti riferimenti a taverne, reali o come luogo ideale.

“Otan pinis stin taverna kathesse ke then milas
kapu-kapu anastenasis ap’ta fila tis kardias”
(Quando bevi in taverna, sei seduto e silenzioso
ogni tanto, un sospiro dalle pieghe del cuore)

La taverna è luogo di consolazione o di divertimento. Luogo maschile. Qualche volta vengono anche le donne. Quando non sono donne di vita, arrivano nella taverna per una causa importante:

“klameni irthes mia vrathia
mes stis tavernas ti gonia”
(in lacrime sei venuta una sera
all’angolo della taverna)

L’originale vecchia taverna greca non aveva orchestra. Gli avventori si sedevano, solitari e pensierosi, o in piccoli gruppi silenziosi. Poche o niente finestre, senza tendine, con tavoli e sedie semplici. C’era sempre un bancone e un lavandino. I temi di discussione in taverna erano sempre di vita quotidiana. Dimosthenis Vutiràs(2) lo scrittore, ha ripreso molti dialoghi della taverna.


 
Il palco (patari), la taverna lo ha preso dal kafè-aman. I musicisti, che una volta suonavano in piedi, in mezzo al choros, nella piazza del paese, adesso sono seduti sul palco. Gli avventori li ascoltano e li osserva­no perché fanno sia akroama (concerto), sia theama (spettacolo). Davanti al palco si è creato uno spazio vuoto per tutti quelli che desiderano ballare; la pista da ballo è una creazione tarda.


 
I suonatori di buzuki (buzuksides) suonavano i rebetika, a inizio serata con severità, tardi di notte con gioia e all’alba con ironia e inventiva. Chi chiedeva una canzone fuori programma offriva ai musicisti sigarette e da bere. Inoltre gli da­vano dei soldi, che o buttavano dentro alla cassa del buzuki o in un piattino, messo apposta. I soldi di carta, li appendevano con uno spillo, sui vestiti dei musicisti, mentre nell’ XIX secolo li attaccavano sulla fronte di chi suonava il clarinetto. Dopo la festa, però, prendevano i soldi indietro. Per primo il famosissimo clarinettista zingaro Giorgios Suleimanis non ha permesso di prendergli le mance. Le offerte in denaro, i busuksides, le chiamano chartura (cartaccia). Spesso ricevevano insulti e minacce e per questo quasi tutti erano armati. I vecchi busuksides mentre suonavano, mangiavano e bevevano. Il bicchiere lo mettevano su un tavolino che avevano davanti a loro, o sul pavimento del palco, dalla parte destra della sedia dove sedevano. La sigaretta quando suonavano la tenevano con la destra tra il medio e l’anulare. I rebetes quando bevono solo all’inizio fanno cin-cin con i bicchieri. Dopo, ogni volta che alzano il bicchiere, semplicemente lo battono piano sul tavolo. Il brindisi “ante viva” esiste già nei canti dimotika. La rottura dei bicchieri è una vecchia abitudine greca. Nei momenti di entusiasmo i rebetes incitano: “suona, Hristo” – “butta un dolce accordo”. Nei rebeti­ka mai si fa menzione ai camerieri. Viene menzionato l’oste. Il conto lo faceva personalmente l’oste, inizian­do con la classica frase: “lipòn, echume ke leme” (allora, abbiamo e diciamo).


Note

(1) Amanès è un particolare tipo di canzone, monodica, lunga e passionale caratterizzata dalla ripetizione dell’ esclamazione turca Aman che significa misericordia, compassione.Mentre l’amanès sembra che abbia un carattere musicale turco, molti validi orientalisti e critici musicali sostengono che, anche se coltivato dai Turchi e altri popoli d'Oriente, risente l'autorità e l'influenza della musica bizantina e in particolare il suono chiamato "pesante", “greve”.
Musicalmente, gli amanedes hanno il proprio stile con la voce alta, greve e profonda che stira e prolunga in intensità e varietà i suoni delle parole, fornendo così passionalità orientale alla canzone.
All'inizio del amanès le parole sono divisi in suoni e sillabe , sviluppati in intensità e lunghezza e varietà di pronuncia in modo che un distico necessita di cinque minuti per essere cantato, per poi iniziare di nuovo, ripetendo lo stesso verso a un ritmo più veloce, accompagnato da altri cantanti in modo che le parole del verso possano essere compresi.
In Grecia si diffondono dal 1877, quando musicisti e parolieri iniziano a scrivere amanedes. La prima registrazione di amanedes avenne nel 1906 ad Atene, e circa lo stesso anno anche ad Istanbul .Va osservato che il 7 novembre 1934 il regime kemalista in Turchia ha vietato questo tipo di canzone in tutto il territorio turco per il fatto che si intreccia con i Greci e l'Impero Ottomano. Tre anni dopo il 1937anche il regime di Metaxas, con una specifica disposizione vieta questo tipo di canzoni in tutto il territorio greco considerato come una sorta di pura musica turca! Cosi gli amanedes sono stati proibiti in entrambi i paesi.


2. Demostenis Voutiras (1872-1958) fu uno dei più importanti romanzieri greci tra le due guerre mondiali.Nelle sue opere descrive principalmente le avventure di poveri, emarginati e indigenti. Molti contemporanei degli scrittori sono stati influenzati dalla sua opera.

mercoledì 21 settembre 2011

Il linguaggio del maghas: kutsavakika

  Testo di Ilias Petropoulos, tratto e tradotto dal libro Rebetika tragoudia, prima edizione del 1968, Atene.
Il linguaggio del maghas: kutsavakika

Molto presto, alcune classi di greci hanno creato linguaggi separati. L’ipocosmo ha avuto il suo argot con molti sottolinguaggi. I ladri parlano in un modo, i papatzides (chi fa il gioco delle tre carte) in un altro. I maghes parlano kutsavakika, come gli effeminati parlano i kaliardà (1). In tempi passati le maestranze edili della Macedonia ovest avevano il loro linguaggio. Gli usurai (kompoianites) comunicavano tra di loro e con i loro aiutanti con il loro idioma (korakistika). Nel 1951 è uscito un Dizionario della piazza (Kapetanakis, Vrasidas, To lexiko tis piatsas, Atene, 1951) ma migliore era il glossario che accompagnava il “Tubeki” di Petros Pikros (2).


L’argot è fenomeno universale. La difesa, la separatezza, la marginalizzazione portano alla sua creazione. Victor Hugo dedica all’argot francese un intero capitolo dei Miserabili. Molte cose interessanti sull’argot dice anche Lombroso. Certi termini dell’argot spagnolo del tempo, spiega Cervantes nel XXII capitolo di Don Chisciotte. I kutsavakika sono composti di parole greche, turche, slave, italiane o anche di parole ecomime­tiche. I kutsavakika non sono un linguaggio stabile. I termini cambiano continuamente così i “nemici” non riescono a capire il vero significato delle parole. Così si spiegano i molti sinonimi. Il narghilé si dice lulàs, thanasis, gurgus. L’hashish è conosciuto come mavri (nero), melahrini (mora), Damira, spa­gani (da Ispahan in Persia) (3), Brussalidiko (di Prussa in Turchia), tzura, hasan-kefi. Nei kutsavakika molte parole hanno differenti significati. Così tubekì significa (in base allo stile del parlante o del contesto) tabacco, silenzio, hashish, taci, e duzeni significa “gioia festaiola” o “accordamento del buzuki”. Nei canti rebetika non ci sono molte parole o frasi appartenenti all’argot. Forse Tsitsanis ha introdotto molti termini nelle sue canzo­ni. Certe parole ed espressioni dell’argot sono passate nella lingua quotidiana. Nei dimotikà esistono un po’ di parole che oggi usano i rebetes. Il verbo “saltaro” esiste in una canzone di Terisso in Calcidica, che si riferisce alla battaglia navale di Koroni e a Lambros Katsonis (4) (1792).

E in altre canzoni le parole: derben­derisa(disordinata, instabile), asikis(uomo fiero), hartziliki(mancia, paghetta), an lahi(se capita), marjioliko(grazioso), daithes(uomini coraggiosi e prepotenti), marjiolissa(graziosa), re(termine esclamativo), gustaro(mi piace), bekriliki(sbornia). Molto interessanti sono i termini che usano i rebetes per riferirsi a se stessi: tsakalia (sciacalli), skili (cane), skilos,skila viene riferita alle persone odiose (“nemico”, “matrigna”). Alla fine la parola turca rebetis (ataktos, alaniaris), forse non va confusa con il termine, di provenienza veneta, rebelos (ribelle)
.

1) Kaliardà: linguaggio degli omosessuali, descritto da Petropoulos nel libro “Ta kaliardà”, 1969, censurato e per il quale venne accusato di pornografia dalla giunta militare. I kaliardà è un idioma degli omosessuali comparso negli anni °40 e creato dalla necessità di avere un linguaggio e un codice di comunicazione tra loro, senza essere compresi dal contesto ostile che prevaleva allora. I kaliardà si sono sviluppati nel corso degli anni, hanno acquisito desinenze greche e influenze dal turco , francese e italiano

2) Pètros Pikròs, nato a Istanbul nel 1896, morì nel 1956. Fin dalla tenera età si trasferisce con la famiglia in Svizzera. Pseudonimo letterario di Pietro Genaròpoulos. Ha studiato medicina in Francia e Germania. Nel 1920 giunse ad Atene, dove ha lavorato nel giornalismo su quotidiani e riviste. Ha scritto testi di letteratura per bambini ed è stato ispiratore delle riviste “Protoporoi” e "Nea Zoi". Nei suoi scritti vi è una simpatia per la posizione tragica degli emarginati della società, creati dal sistema di sfruttamento. Naturalista in letteratura, sui modelli di Emile Zola e Maxim Gorkij, fa emergere dall’ oscurità il sottoproletariato del suo tempo. I suoi eroi sono umili e di nessuna considerazione che si gettano nel vortice delle grandi città per cercare di sopravvivere, dimenticando il loro passato e un futuro incerto. Con un linguaggio semplice, naturale e fluido, dà voce alle prostitute, gli sfruttatori, i meschini, i senzatetto, detenuti, tossicodipendenti, persone affette da tubercolosi e malattie veneree.
Sue opere
Chamena kormià, 1922, Corpi perduti
Sa tha ghinume anthropoi, 1924 Quando diventeremo uomini
O anthropos pu echase ton eafto tu, 1928 L'uomo che ha perso se stesso
Toumpeki, 1927

3) Brussalidiko: hashish prodotto nella citta di Brussa, oggi Bursa (anticamente Prusa), situata a sud del mar di Marmara. Spagani: hashish prodotto nella città iraniana di Ispahan o Isfahan

4) Lambros Katsonis ( 1752 - 1804 ) è stato un ammiraglio greco della marina russa, cavaliere e eroe del movimento di liberazione nel 1787 . Nel 1774 è entrato come ufficiale nel battaglione greco dell'esercito russo, dove raggiunse il grado di capitano. Con l'inizio della guerra russo-turca nel 1787 , si recò a Trieste , dove ha ricevuto dai Greci che vivevano lì alcune navi e cominciò con le incursioni e gli attacchi contro la Turchia nel Mar Ionio.

martedì 13 settembre 2011

Il maghas o il Kutsavakis

 Questo testo di Ilias Petropoulos è tratto e tradotto dal libro Rebetika tragoudia, prima edizione del 1968, Atene.
 
Il maghas o il Kutsavakis

È improbabile che la parola Kutsavakis derivi dal nome del litigioso caporale della cavalleria Dimi­trios Kutsavakis, che agiva nel periodo di Otone, re di Grecia dal 1833. Una serie di aggettivi caratterizzano l’ipocosmo: maghes, skilomaghes, daithes, rebetes, tsiftides, vlamides, tsakalia, mortithes, maghiori, alania. Secondo Fedon Kukulès (1) i skilomaghes erano allevatori di cani che accompagnavano alla caccia gli arconti medioevali. Inoltre, la magha significava gruppo di armati.



Magha di Arvanites 1820

Per la precisione magha era una piccola squadra di albanesi armati iregolari, che non avevano tra di loro una parentela (quando c’era parentela si chiamava fara). Nel 1821, data dell’insurrezione dei greci contro l’impero ottomano, i greci chiamavano magha l’unità minima di soldati guidati da un caporale. Due – tre maghes costituivano un buluki (25 soldati). A capo della magha era il maghatzis. La parola maghas la utilizza Makrigiannis (2) ed anche Papadiamantis(3) nel racconto “Stahtoma­sohtra” mentre nel “Lamento della foca” usa la parola maghopeda e da qualche altra parte la parola telbederis. Dalla canzone popolare deriva il verso “tris maghes ton apandissan ki i tris armatomenni” (tre maghes l’hanno incontrato e tutti tre erano armati). Gerontomaghas è il vecchietto che insiste nella maghià, mahalomaghas è il maghas che è conosciuto solo nella sua piazza, kuradomaghas il falso maghas, maghitis (maghitissa) il nuovo maghas, e horiatomaghas o vlahomaghas il furbetto dalla campagna che fa il maghas.
I maghes sono conosciuti già nei primi rebetika. I vlamides hanno un significato nelle canzoni popolari nei di­motikà(4) e un altro nei rebetika. I vlamides erano fratelli acquisiti. Nel rebetiko i vlamides erano gli amici del cuore. La parola si è salvata anche come cognome.
Alania erano le piccole barche dei greci molto utili negli scontri navali. Maghioros nel 1821 veniva chiamato il colonnello (maggiore). La parola tsiftis (leventis, orgoglioso, coraggioso) forse deriva da tsiftis che signifi­ca il bue di coppia da traino - e per estensione l’uomo che patisce vicino a noi. Il maghas dell’orologio era chi frequentava la magharia della piazza dell’orologio di Elgin.
Generalmente i maghes erano simpatici e amati dai greci perché il greco ama il greco per i suoi difetti. I maghes non erano tipi filosofeggianti. Non c’è un modo rebetiko di pensare. C’è un modo rebetiko di vivere. La mala aveva i suoi luoghi. Truba in Pireo e Bara in Salonicco erano i tipici quartieri dove i maghes hanno dominato o dominano ancora. Tra di loro i maghes si chiamavano fratellini, la loro morosa la chiamano sorellina o mammina.




Nikos Mathesis con tre maghes a Pireo, 1933

La spiegazione della parola kutsavakis da kutsà+vaino (cammino storto) che richiama il particolare modo di camminare dei kutsavakides non è convincente. I kutsavakides del quartiere Psiri (5) erano attivi tra il 1862 – 1897. Sembra che i primi kutsavakides erano di Aivalì insediati nell’isola di Syros. Dopo, quando Atene è diventata capitale dello stato greco, molti maghes di Aivalì e Syros si sono insediati nel quartiere ateniese di Psiri. Dopo la cacciata di Re Ottone i kutsavaki­des hanno conosciuto grande fama e i partiti li usavano come picchiatori e provocatori. I kutsavakides sono stati sterminati da Bairaktaris e dalla guerra del 1897.


Sei maghes nelle prigione di Egina, isola del Saronico,1932



(1)Koukoules Phaidon ( 1881 - 1956 ) è stato un byzantinologο greco, membro della Accademia di Atene. Nato a Ermoupolis nell’isola di Siros. Laureato alla Università di Atene, in seguito ha studiato linguistica e bizantinologia in Germania . Ha fatto l’insegnante di liceo a Istanbul e nel 1931 fu nominato professore di vita pubblica e privata dei Bizantini presso l'Università di Atene. Nel 1951 anno del suo ritiro è stato eletto membro della Accademia di Atene . E 'stato uno dei membri fondatori della Società di Studi Bizantini, di cui è stato segretario generale. Dal 1926 è stato direttore del Dizionario storico della lingua greca ed aveva pubblicato 20 volumi della Società di Studi Bizantini. Morì a Atene nel 1956 .

(2) Yannis Makriyannis ( 1794 - 1864 ) è stato un guerriero, generale ed eroe della rivoluzione greca del 1821. Ha combattuto con coraggio, saggezza e lungimiranza nel Peloponneso e Grecia Centrale. Ha usato i trucchi e le strategie della guerriglia per ingannare l'avversario. Scrisse un Autobiografia, documento importante sia dal punto di vista storico sia letterario.

(3) Papadiamantis Alexandros, (1851-1911), nativo di Skiáthos, fu uno dei primi grandi classici della prosa greca. Alcune delle sue novelle, edite in italiano, sono state raccolte in 2 volumi: Racconti di Pasqua e Racconti di Natale. Ma caratteristici della sua produzione sono soprattutto i romanzi L’assassina e La ragazza di Boemia, nei quali descrive, con una lingua al tempo stesso raffinata e popolare, il mondo umile e spesso tragico dei pescatori e dei contadini.

(4) Dimotico e Laiko: le due principali suddivisioni della musica greca, dimotikò tragudi (chançon folklorique) è la canzone popolare delle campagne, composta durante il periodo bizantino e l’era della dominazione turca, mentre laikò (chançon populaire) è la nuova canzone del popolo delle città. Precisamente, per la Grecia, dimotikà sono tutte le canzoni del popolo greco composte fino al 1821, mentre laikà sono le più recenti canzoni delle città, le serenate e i rebetika.

(5) Psiri è un quartiere storico di Atene . Il quartiere si trova nel centro di Atene ed è uno dei più antichi. Si trova tra la via Euripidou, via Geraniou, via Sofocleus, via Athinas, via Ermou, via Pireos e Asomaton. Il quartiere Psiri viene citato nel libro del medico francese Spon dal titolo "Viaggio in Italia, la Dalmazia, la Grecia e l'Oriente" nel 1678 , che si presenta come uno degli otto quartieri di Atene.
Dal 1870 Psiri era diventata una delle zone più pericolose di Atene. Motivo erano i famosi "kutsavakides", maghes della piazza che vivevano nell’illegalità. I kutsavakides rapinavano e talvolta uccidevano i commercianti causando grande spavento tra i passanti. La polizia interveniva di rado e senza grandi risultati. Alla fine l'azione dei kutsavakides terminò bruscamente nel dicembre 1893 , quando l'allora capo della polizia di Atene e Pireo Demetrio Bairaktaris ha deciso di ripulire il quartiere dagli elementi canaglia. In un mese è riuscito ad arrestare i maghes della zona e a controllare il quartiere per sempre.



martedì 30 agosto 2011

Gli Zeibekia




Questo testo di Ilias Petropoulos è tratto e tradotto dal libro Rebetika tragoudia, prima edizione del 1968, Atene.
Gli Zeibekia


Gli zeibekides erano una tribù di guerrieri di Prussa, Aidinio e i dintorni di Smirne, in Asia Minore. Una tesi forse sbagliata fa di loro dei resti di popolazioni Tracie. Comunque i turchi li chiamavano Ghiaur come i greci. La versione più probabile sulla loro origine è quella che li ritiene appartenenti alle tribù nomadi degli Iurukides, (non mussulmani, di origine turcomanna o ionica). Sull’insediamento degli iurukides dall’Anatolia occidentale nell’area di Aidinio hanno contribuito cause religiose. Sugli zeibekides le informazioni più antiche risalgono al XVII secolo. Vengono descritti nei libri di viaggiatori del XVIII e XIX secolo. Il pittore Litras (1) ha dipinto uno zeibeki e lo scrittore Vikelas (2) si riferisce agli zeibekides nel racconto “Lukis Laras”.
  
Gli zeibekides erano amanti della guerra e del combattimento nonché renitenti ad ogni ordine. I sultani li utilizzavano come corpo di polizia secondario, ma dal 1833 hanno cercato di disarmarli col risultato di provocare la loro insurrezione capeggiata dal Kel Mehmet. Alla fine gli zeibekides sono stati quasi decimati. Si calcola che erano circa 40.000. Gli zeibekides avevano le loro abitudini e divise completamente differenti da quelle turche. Armati fino ai denti, portavano sulla testa foulard di seta con le frange, gilet corto ricamato senza maniche, salvari, alle gambe tuslukia (3) e ai piedi pantofole. Ma quello che li distingueva era l’orgoglio, il selachi (4) pieno di armi, largo e fatto di pelle, le ginocchia bianchissime e il famosissimo zeibekiko che balla­vano. Questa danza era una danza di guerra , selvaggia come certe danze dei greci di Pontos. Un particolare zeibekiko è quello ballato dagli zeibekides di Makrinitsa a Volos.

(1)   Nikiforos Lytras (Pyrgos Tinos, 1832 - Atene, 13 giugno 1904 ) è stato uno dei più grandi pittori greci e maestri della pittura nel 19 ° secolo . E 'considerato il più importante dei rappresentanti della Scuola di Monaco in Grecia. Al suo ritorno in Atene da Monaco nel 1862 , Lytras è stato nominato professore presso la Scuola di Belle Arti, insegnamento che tenne per 38 anni. Nel 1873 , ha fatto un viaggio trimestrale a Smirne e in Asia Minore, che ha arricchito il suo talento di influenze orientali. Ha provato a esplorare l'influsso d'Oriente sul classicismo, per poter meglio comprendere lo stile bizantino.

(2)   Demetrios Vikelas ( 15 febbraio 1835 - 7 luglio 1908 ) è stato uno studioso, poeta e romanziere greco. Il suo romanzo più importante fù Loukis Laras. Prosa di contenuto realistico e sociale, scritto nel 1879,  si riferisce alle conseguenze della rivoluzione del 1821 sulla gente comune Un opera molto importante per lo sviluppo della moderna letteratura greca.

(3)  Tuslukia: strisce di stoffa con le quali  i zeibekides avvolgevano le gambe sotto le ginocchia.

(4) Selachi: sorta di fondina per le armi, portate a mo’ di cintura. Il selachi è una cintura -marsupio indossato con i costumi tradizionali della foustanella . E 'stata  usata inizialmente dai leader della Rivoluzione del 1821 e poi da alcuni borghesi nel Peloponneso , Grecia centrale  ed Epiro.

venerdì 19 agosto 2011

Gli inizi del rebetiko



Questo testo di Ilias Petropoulos è tratto e tradotto dal libro Rebetika tragoudia, prima edizione del 1968, durante i tempi della dittatura dei colonelli (1967-1974).

Inizi

I canti rebetika sono canzonette semplici che cantano gli uomini semplici. Anche se inizialmente erano canti d’amore, in fondo sono canzoni di contenuto sociale. L’epoca in cui il rebetiko è apparso, da una parte è vicina, ma per lo più sconosciuta. Non sono conosciuti con esattezza né le cause di sviluppo, né le iniziali influenze, né i primi luoghi dove si è ascoltato. Si suppone che Ermoupoli, Nafplio, la vecchia Atene, Smirne, Constantino­poli, Alessandria e Salonico siano i luoghi dove è nato, non casualmente, il rebetiko. L’ipotesi è che ciò sia avvenuto alla fine del XIX sec.

Certe canzoni le cantavano i kutsavakides dell’epoca di Dimitri Bairaktari (colonnello-capo di Polizia di Atene nel periodo 1893–1897), ma non sono arrivate fino ai nostri giorni. Papadiamantis (1), nei racconti ate­niesi, parla di serenate alle ragazze con chitarre, mandolini e fisarmoniche. Ad Atene nella seconda metà del XIX secolo trionfava la musica italiana. Ma vi covava una reazione nascosta. In Il vicino col flauto (1900) di Papadiamantis un tale di origine turca che vive in un quartiere di Atene, cantava o in turco o in kutsavakika (l’argot locale). Nel 1865 si istituisce l’Inno nazionale, musicato da Mantzaro su versi di Solomos.

Con ogni probabilità molti erano i fattori che hanno contribuito alla formazione e all’evoluzione del rebetiko. Il musicologo Foivos Anogeianakis (2), con saggezza e attenzione, si sofferma su questi fattori. La commedia amorosa del periodo di Trikoupis (3) forse è stata uno dei fattori della nascita del rebetiko. La tradizione della canzone popolare (Dimotiko tragoudi) (4), i canti della taverna e quelli anatolici, le rime dei calendari popola­ri, gli amanè passionali, gli inni bizantini, la formazione e l’immediata crisi della classe borghese, le melodie balcaniche, la guerra del 1897 (5), la katastrofì del 1922, le ondate di profughi, i tekè e la vita di galera sono considerati tutti fattori determinanti. Comunque dal 1922, e per i successivi dieci anni, ha predominato lo stile di Smirne (Smirneiko) nel rebetiko.


Note

(1) Papadiamantis Alexandros, (1851-1911), nativo di Skiáthos, fu uno dei primi grandi classici della prosa greca. Alcune delle sue novelle, edite in italiano, sono state raccolte in 2 volumi: Racconti di Pasqua e Racconti di Natale. Ma caratteristici della sua produzione sono soprattutto i romanzi L’assassina e La ragazza di Boemia, nei quali descrive, con una lingua al tempo stesso raffinata e popolare, il mondo umile e spesso tragico dei pescatori e dei contadini

(2) Foivos Anogeianakis (Heraklion 1915-Atene 2003): musicologo e critico musicale. Ha studiato violino presso il Conservatorio Greco di Heraklion. Come etnomusicologo ha lavorato allo studio della musica popolare greca e cipriota. Socio della "Societe Internationale de Musicologie". Nel 1978 Anogianakis ha donato la sua collezione di strumenti musicali popolari al Museo di strumenti popolari greci. Fu il primo a individuare il valore artistico del rebetiko (dal 1947) e la sua connessione alla tradizione popolare. Associato a: "Larousse de la musique", 2 voll (Parigi 1957), "Enciclopedia dello Spettacolo" (9 volumi, Roma 1954-1962), ha inoltre pubblicato l'eccellente libro "Greek Folk Musical Instruments" (edizione di Banca Nazionale del 1976, vedi l'edizione inglese, 1979 ).

(3) Trikoupis Charilaos, Nafplio 11 luglio 1832-Cannes aprile 1896, è stato un politico greco che ha fatto il primo ministro della Grecia per sette volte dal 1875 fino al 1895, era il figlio di Spiridon Trikoupis , un politico che è stato Primo Ministro della Grecia brevemente nel 1833.

(4) Dimoticò e Laikò: le due principali suddivisioni della musica greca, dimotikò tragudi (chançon folklorique) è la canzone popolare delle campagne, composta durante il periodo bizantino e l’era della dominazione turca, mentre laikò (chançon populaire) è la nuova canzone del popolo delle città. Precisamente, per la Grecia, dimotikà sono tutte le canzoni del popolo greco composte fino al 1821, mentre laikà sono le più recenti canzoni delle città, le serenate e i rebetika

(5) La guerra greco-turca del 1897 o in altro modo, la guerra di trenta giorni o Mavro '97, fu la guerra tra il Regno di Grecia e l' Impero Ottomano nel corso dell'anno 1897 a seguito della rivolta dell'isola di Creta del 1996. La guerra si concluse con una sconfitta umiliante della Grecia e l' applicazione di severe norme internazionali di controllo finanziario. La guerra iniziata il 6 aprile 1897 si è conclusa con l'intervento delle grandi potenze europee il 7 maggio, dopo che i Turchi avevano occupato Tessaglia. Un primo trattato di pace è stato firmato il 6 settembre, dopo cinque mesi di trattative con le grandi potenze europee e lo stato Ottomano. Il trattato definitivo è stato firmato il 22 novembre 1897 .





giovedì 18 agosto 2011

Ilias Petropoulos


Questo blog vuole essere un omaggio a Ilias Petropoulos e alle sue ricerche sul rebetiko. Strada facendo saranno pubblicati in traduzione italiana, testi suoi e di altri autori. 
La traduzione di questi testi  mi ha dato lo spunto per ripercorrere nella mia memoria gli anni ’70. Anni dell’adolescenza, del mio arrivo ad Atene da un piccolo paese greco, della grande città con milioni di abitanti, con il suo senso di libertà e di smarrimento, ma i miei ricordi si orientano soprattutto intorno ad una data, il 24 luglio del 1974, che coincide con la caduta definitiva della dittatura. Ed è proprio a partire da questa data che avviene il mio incontro con gli hassiklidika, i rebetika dell’hascisc e con Petropoulos perché prima era difficile per un adolescente ascoltare i primi e leggere il secondo, in quanto censurati e proibiti.
Subito dopo la fine della dittatura, la musica e i libri che prima giravano di nascosto, erano di nuovo liberi. Mi ricordo per strada i venditori con carretti pieni di libri prima vietati, stampati velocemente e in edizioni economiche. Nelle case, nelle feste e nelle taverne si sentivano le canzoni, soprattutto di resistenza, sia storiche che recenti. Non però i rebetika dell’hascisc, sottoposti ad una doppia censura, pre e post dittatoriale.

In quegli anni, sotto casa mia, aveva aperto uno di quei negozietti tipici greci, uno psilikatzidiko, negozio di minuterie, un super market in miniatura, dove potevi trovare di tutto, dalle medicine alle sigarette. Lo tenevano padre e figlio. Il figlio era un giovane barbuto dell’epoca, studente non so di quale facoltà, impegnato nella lotta, di sinistra ma non del partito. Per hobby duplicava cassette di musica e le rivendeva quasi a costo di produzione, musica greca ma anche blues e rock and roll. Era il nostro rifornitore di musica, ed è stato un pomeriggio da lui, mentre si discuteva di questo e quell’altro autore, della musica rock e di quella greca, che mi ha fatto sentire per la prima volta i rebetika dell’hascisc: vecchie registrazioni, con il rumore di fondo che era quasi più alto della musica. Comprai la cassetta e la risentii più volte a casa mia, di nascosto dai miei. Con gli amici l’ascoltavamo con un piccolo registratore in pineta, dove ci nascondevamo per fumare le prime canne o in quei monolocali che prendevamo in affitto collettivo per fumare e fare i nostri comodi, tekes, jafka o garconnier: sostanze, politica e amore. Qualche anno più tardi, Tsitsanis, il bardo del rebetico, scrisse forse l’ultima canzone sull’hascisc, sul sequestro di una nave proveniente dalla Persia, a Corinto, piena di tonnellate di questa sostanza. Era una canzone ironica e divertentissima, la cantavano tutti ed era su tutte le radio.




Lo stesso barbuto che mi fece sentire i rebetika dell’hascisc mi parlò di Petropoulos e delle sue ricerche sul rebetiko, scrittore che aveva fatto la galera con i colonnelli ma che continuava ad essere mal visto dalla morale borghese ma anche da molti di sinistra. Un anarchico libertario, cosi me lo presentò. Aveva pubblicato a sue spese, durante la dittatura, nel 1969, la più grande ricerca sul rebetiko mai fatta, senza passare dalla censura e più tardi una ricerca sull’argot degli omosessuali in Grecia. Entrambi i libri vennero censurati e l’autore condannato. Da quella chiacchierata con il barbuto non ho più dimenticato Ilias Petropoulos e qualche anno più tardi ebbi tra le mani uno dei suoi libri più famosi, Il trattato del buon ladro, prima edizione del 1979. Fu una folgorazione. Capii in quell’occasione che finalmente avevo tra le mani un libro o capivo che cosa può essere veramente un libro. Quanta potenza può avere per un adolescente la lettura di un testo così! Non solo per i contenuti ma soprattutto per la forma e il linguaggio. Quell’ironia cruda e irriverente mi faceva capire perché i colonnelli ed anche i post colonelli lo consideravano sovversivo e pericoloso, e lo perseguitavano. Petropoulos si autoesiliò a Parigi perché aveva i coglioni pieni della stupidità del potere, di quello accademico ma soprattutto di quello poliziesco, giudiziario e penale. Lottò fino alla fine della sua vita; era sistematicamente antisistemico; denunciò a gran voce la parte repressiva dello stato e della chiesa e anche della chiesa-partito; ateo convinto ma con una concezione sacra della vita.

Ricordo che Il Trattato del buon ladro, ma era così anche in tutti gli altri suoi libri, come capirò in seguito, era disseminato di innumerevoli liste o cataloghi: venivano classificati i temi più improbabili, con i criteri più disparati. Una poetica delle classificazioni che niente aveva a che fare con l’impianto categoriale che ti fornisce la scuola, la morale o il partito. Il mondo secondo Petropoulos andava diviso diversamente; esisteva per lui un mondo sotterraneo, un kosmos ypogeios, l’ipocosmo, che esprimeva valori, esperienze e saperi in continua opposizione nei confronti del mondo sociale , espresso nella logica del potere dello stato, della polizia, dei tribunali, della chiesa e della famiglia, del denaro e del profitto. Ecco una sua dichiarazione: “Amo i balordi e i fumatori di hascisc, i ladri e le puttane, i rebetes e i finocchi, perché lottano contro ogni forma di potere ma li amo ancora di più perché riescono a sopravvivere contro la polizia, contro la legge penale, contro la rivoltante morale piccolo-borghese ma soprattutto contro la fiammante passione di se stessi”*. Schierarsi, demistificare, raccogliere e testimoniare, far emergere esperienze e saperi nascosti e passivi, scontrarsi con il sapere accademico e del senso comune, con passione e intelligenza.




Il gusto per le liste e le classificazioni eterodosse era diretta conseguenza della sua tendenza ossessiva di collezionare documenti di vario tipo sui mondi esplorati; migliaia e migliaia di oggetti, fotografie, cartoline, interviste e testimonianze; esplorare, collezionare, catalogare i mondi sotterranei popolari che l’accademia non degnava di uno sguardo se non quello criminologico. I periodi più produttivi per le sue ricerche, di osservazione diretta, sono stati quelli in cui si trovava in carcere; stava con i detenuti comuni e non con i prigionieri politici. Era uno che conosceva il loro linguaggio e il loro modo di essere.

Conosceva molte lingue e molti linguaggi. Forse era il miglior conoscitore della lingua greca, sicuramente delle famiglie linguistiche balcaniche compresa quella turca. Per me che ero uno studente del liceo, e che, come molti greci, scrivevo e leggevo nella katharevussa, il greco della burocrazia, dell’Accademia e dei Vangeli e parlavo la demotiki, la parlata neoellenica, leggere il suo libro e il suo greco scritto è stato uno shock. La sua capacità di usare la lingua in tutta la sua diacronia e in tutte le sue contaminazioni, dal greco antico fino alle espressioni idiomatiche, turche o albanesi, con una freschezza, ironia e provocazione che non avevano pari, non aveva paragoni nel panorama letterario, almeno per me, studente di liceo. Era un lessicografo avanguardista.

Le sue ricerche hanno influenzato i gusti musicali di intere generazioni di greci offrendo la possibilità a chi non aveva vissuto il periodo d’oro del rebetico di potersi accostare ad esso al di là dello sviluppo elettrificato degli ’60 e oltre la mediazione tra rebetiko e musica colta di un Theodorakis o Hatzidakis, stile musica impegnata. Le sue ricerche hanno avuto ed hanno la capacità di rileggere non solo la storia del rebetico e della musica in Grecia ma di rileggere, a partire dalle semplici canzonette, tutta la storia della Grecia, quella politica, storica e sociale. 

*E’ una dichiarazione che fa Petropoulos nel film di Kaliopi Leghaki, ΕΝΑΣ ΚΟΣΜΟΣ ΥΠΟΓΕΙΟΣ / ΗΛΙΑΣ ΠΕΤΡΟΠΟΥΛΟΣ, An underground world / Elias Petropoulos,  Doc, 61΄, 2004, FIPRESCI award ( Thessaloniki 2005 ).