venerdì 13 dicembre 2013

Mastura, hascish e droghe pesanti




Testo di Ilias Petropoulos, tratto e tradotto dal libro To Aghio hassissaki, prima edizione del 1987, Atene.
 
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Vent’anni fa, quando scrivevo i tre paragrafi dedicati all’hascish e alla tossicomania in Rebètika tragoùdia, mi trovavo in una situazione contraddittoria, psicologicamente e ideologicamente. Per proseguire con il presente testo, sono obbligato a presentare il contenuto dei suddetti paragrafi.
Dicevo, in quel tempo che:

L’hascish

Quella dell’hascish è una storia antica e, nello stesso tempo, completamente nuova. Lo conoscevano gli Sciti e ce ne parla anche Erodoto. Però gli antichi greci e i romani non lo usavano. Il nepenthès di Omero, pianta di provenienza egiziana, forse è hascish, forse oppio. Inizia intorno all’anno 1000 d.C. con i maomettani la grande diffusione di questa sostanza. In Grecia è arrivato dall’est e principalmente tramite ex-carcerati di Smirne, Missiriò, Prussa, Scutari e paesi arabi intorno al 1880. Poco dopo, nel 1890, ci sono i primi decreti proibizionisti. La totale proibizione della coltivazione dell’hascish arriva nel 1923, mentre solo negli ultimi anni è punibile anche il consumatore di hascish. Fino ad allora solo i trafficanti venivano perseguiti penalmente. Dal 1925 lo stato ha il monopolio dell’hascish.

L’hascish (hascish el fokara: erba dei poveri) è un prodotto della canapa indiana, pianta che cresce anche in Grecia, soprattutto nei terreni grassi. Le piantine della canapa si piantano segretamente in giardini chiusi o in mezzo a coltivazioni appartate come i campi di mais. Di conseguenza il canapaio può essere con o senza acqua. Dicono che il miglior hascish lo fa la canapa coltivata senza acqua e in terreno povero. Quando le piante maturano vengono tagliate le cime, e allora si ottiene la fùnda che viene seccata e poi polverizzata sopra un piano. Dopo questo materiale viene passato attraverso setacci di varia maglia, utilizzando anche le calze di seta, finché non rimane che polvere sottile. L’hascish polverizzato viene messo in sacchetti e pressato per due, tre mesi in modo che diventi compatto. I sacchetti di hascish sono destinati al commercio all’ingrosso. Esiste anche un altro tipo di trattamento dell’hascish, più facile e veloce, buono per il commercio al minuto: piccole quantità di hascish in polvere vengono inumidite e poi stirate con il ferro caldo. Il prodotto viene offerto sul mercato in stecche o palline (tsìkes o tzùres) di colore che va dal verde-marrone fino al nero. Kainàri è l’hascish pregiato. Esistono bevitori di hascish (hassissopòtes), mangiatori di hascish (hassissofàghi) e fumatori di hascish (hassissokapnistès). L’hascish si prende infatti col caffè, con i dolciumi, la sigaretta o il narghilè. Nel caffè aggiungono della polvere di hascish crudo. Nei dolci l’hascish è mischiato con sciroppo, fichi secchi e noce moscata. Come sigaretta esistono due modi di fumarlo: la sfìna (il cuneo) e il tsigarilìki (lo spinello). La sfina è il modo più semplice. L’hassiklìs, con attenzione e con un fiammifero, fa un buco nella bocca della sigaretta e inserisce un vero e proprio cuneo di hascish. La dose basta per uno o due persone. Il tsigarilìki lo si fa con due cartine che si rollano in una sigaretta conica piena di tabacco e hascish sbriciolato. Il filtro dello spinello, fatto di cartoncino si chiama tzivàna (o tziovàna o giovàna). La parte opposta dove si accende si chiama furfùri.

Di solito gli hassiklìdes fumano lo spinello perché si fa al volo e non necessita di un luogo particolare. Mentre il narghilè, màpas, kalàmi (canna), o thanàssis me to trìpio to kefàli (il thanassis con la testa bucata) ha bisogno di un luogo adatto e un minimo di lavorio. Prima di tutto il narghilè viene fumato nei tekè (i turchi chiamavano tekès i mausolei dei pascià, dei dervisci o dei generali e i monasteri) e, quando questo è impossibile, nelle grotte, sulle spiagge deserte, ai confini delle città e ultimamente nei taxi ingaggiati apposta. Nel tekès regna l’ordine, il silenzio e la gerarchia. Lì i più giovani rispettano i vecchi. Le persone più importanti nel tekè sono il teketzìs e il tzaktsìs, cioè colui che con il pollice schiaccia i lulàdes28 e li serve. Tsitsànis in una canzone proibita paragona il tekè a una chiesa. Siccome il vero narghilè è costoso e difficilmente si può nascondere, si confezionano narghilè d’occasione da piccole anfore, noci di cocco, salvadanai di terracotta, lattine, bicchieri e ancora con melanzane, zucche, meloni, pagnotte, patate e mele.


Il tipico narghilè consiste in un semplice sistema, costituito da due tubi inseriti in un contenitore sferico e chiuso, quasi pieno d’acqua. Il tubo perpendicolare, chiamato sèri, arriva fino al fondo del narghilè con la bocca tagliata obliqua in modo che possa passare l’acqua e l’aria. Sopra il sèri è sistemato il lulàs, fatto di pietra di Malta o anche da una patata. Nel lulàs mettono il tubekì, tabacco persiano tagliato sottile, misto all’hascish. Sopra quest’ultimo mettono due o tre carboncini accesi. Questo piccolo fuoco viene chiamato rufiana. Per un narghilè come si deve il tubekì deve essere lavato. Nel lulà avviene la combustione dell’hascish. L’hassiklìs fuma il narghilè tirando da una canna laterale, il tirante, così il fumo dell’hascish scende dal sèri e dopo sale sotto forma di bolla nell’acqua. L’acqua ha la funzione di filtro. Nella parte superiore del narghilè c’è lo iuf (iouf), o dumanòtripa; è un piccolo buco che mentre si fuma viene chiuso con il dito in modo tale da equilibrare le pressioni. Dopo l’uso viene tirato fuori il lulàs, e si mette il narghilè in un secchio con acqua fredda, così da mantenerlo fresco e pulito, altrimenti si formerebbero impurità, chiamate zafìria. L’ideale sarebbe far scendere il secchio con il narghilè in un pozzo. La parola narghilè proviene dal termine persiano narghilel, noce indiana. I turchi chiamavano il narghilè sisselì, bottiglia.

Qualche volta gli hassiklìdes sballano, si ubriacano, respirando il fumo dell’hascish, che brucia in una stufetta, dopo aver chiuso bene porte e finestre. In questo caso gli hassiklìdes si chiamano dumanàkides (da dumàni: nebbia di fumo). In prigione i carcerati fumano gli spinelli nel letto, avvolti nella coperta, così respirano per molte volte i dumània senza che niente vada perso. Quando però i carcerati non hanno l’hascish fumano contemporaneamente tre sigarette o inghiottono un po’ di aspirine. Sembra che così facendo provino vertigini o sollievo. L’hascish odora come il livàni, incenso libanese. Gli hassiklìdes usano i verbi bere-fumare-tirare.

Il bere sostanzialmente è un verbo da taverna. Il fumare deriva dall’epoca in cui è stato introdotto il tabacco nell’impero ottomano; nei secoli dell’impero si fumava il tabacco nelle pipe o nei narghilè. Ci sono pervenuti molti disegni e incisioni sul tema. In ogni kubùra, selàhi, cintura dell’epoca, comparivano sempre la tabacchiera, la pipa - il priòvolo (lo stoppino) -, che accendeva l’esca, o il tsakmàki, insieme al fitìli. Famosissime erano le pipe di Alì Pascia, il pascià di Ioannina.

 
Generalmente ogni pipa aveva un corpo di terracotta, una siringa, semplice o scolpita, corta oppure lunga fino a un metro e mezzo, ed un bocchino, imamè, fatto di ambra. Costavano cari e per questo venivano sempre riportati nei protocolli di sequestro della gendarmeria turca. Nei canti popolari (dimotikà) non si fa riferimento all’hascish, mentre molte canzoni rebètika sono state fatte proprio per cantarlo. Il fumare tabacco e sigarette è riconosciuto sia nei canti popolari sia nei rebètika. Le espressioni sigaretta, sigarettina, tabacchiera, tabacchiera con tabacco le troviamo anche nei versi popolari.

Due modi veramente rari di fumare l’hascish sono il potiràto, in cui si usa il bicchiere come narghilè, e un bocchino da sigaretta, e lo iufato, sistema per cui, mentre l’hascish brucia in un incensorio, l’hassiklìs respira il fumo con una pipa vuota. 

 
§ La mastùra (lo sballo)

Il tekè è una delle fonti del rebètiko, o per lo meno di una sua parte. Chi fuma può perdere l’assuefazione ma non dimenticherà mai l’hascish. L’hascish lo si fuma nei tekè o nelle colline intorno alla città.

H màna mou me èsterne skoliò ia na pighèno
Ma gho travùssa sto vounò me màghes na fumèrno.

La mia mamma mi mandava a scuola per imparare
ma io andavo in collina con i màghes a fumare/

Famoso era il tekè di Sidèris, a Salonicco, che era stato immortalato dalla canzone di Tsitsànis.
L’uso dell’hascish è un vero disastro, il magico hascish è sicuramente il paradiso artificiale in terra, insostituibile per i disperati. Per questo lo fumano i poveri che si lasciano andare, e le persone sensibili per il corpo mortale che si disintegra. Si fuma e si dimentica. Attraverso l’hascish si realizzano speranze altrimenti vane. Fumano gli innamorati, tanto tutto finisce in amarezza. E gli amareggiati non li vuole nessuno.

Na fumàro na bafiàsso ke tis pìkres na xehàsso.
Fumare fino a crepare, l’amarezza dimenticare.

Ancora fuma l’hascish chi vuole dormire senza spegnersi, chi vuole suicidarsi per tutta la vita. Tutti quelli che fumano hascish si sono fatti trascinare, e così si mettono ai margini del vortice sociale.

To hassìsi ki an fumàro eghò kanèna den piràzo/
Anche se fumo hascish non do fastidio a nessuno/

Sicuramente lo stato esistente mantiene le apparenze. La polizia vieta il fumo. Però gli hassiklìdes sono più interessanti degli ubriaconi e infinitamente più belli dei piccolo-borghesi. L’hascish regala rilassatezza, sogni dolci, la desiderata tranquillità, allontana i pensieri neri che genera la povertà. La povertà è una macchia. Nessuno vuole essere povero. E nessuno vuole sapere di essere povero. L’hascish è un sostituto della vita. Lo sballo è un peccato. I turchi non fumano hascish durante il Ramadan. Gli hassiklìdes con esperienza non fumano sigarette né bevono alcool perché gli sembrano senza sostanza. Gli hassiklìdes son buoni, sensibili, oziosi; tutti quanti prima o poi finiscono per oziare.

Il narghilè viene considerato un oggetto sacro dagli hassiklìdes, come un bicchiere sacro, Il santo calice e l’ostia. Un attrezzo valoroso, la cui perdita è considerata una sventura.

Mi hiròtera, theè mou, èspasa to narghilè mou/
Mio dio che sventura del narghilè la rottura/

Kir-lohaghè, kir-lohaghè, mas èspases to narghilè/
signor tenente, signor tenente, il narghilè ci hai rotto.

Nei tekè lo sballo con l’hascish, la mastùra, costituisce piacere collettivo. Perché il narghilè passa di mano in mano mentre i baglamadàkia, piccoli buzùki, danno colore alle allucinazioni e sensazioni più strane. Una lunga tradizione vuole che il narghilè sia “bevuto” in silenzio, senza una parola. Quelli che hanno provato dicono che l’ora migliore per la mastùra è verso sera oppure presto al mattino con il fresco. E ancora che il mastùris, colui che sballa, è meglio se ascolta qualcuno che canta o suona qualche strumento.

Aftì ton pìnun ki eghò sfirìzo tis mastùras ton skopò/
Gli altri lo bevono, io dello sballo il ritmo fischio/

Si è registrato un innalzamento del consumo durante i momenti più difficili, come il 1897, al tempo del disastro dell’Asia Minore (1923), durante l’Occupazione nazista, ma anche nel corso della guerra partigiana e di quella civile.

La maggioranza degli hassiklìdes (i non delinquenti) sono disoccupati o inoccupati. L’hascish è diventato una piaga delle grandi città, un virus psicoerosivo nei porti. Si offre in tutti i quartieri popolari.

De mu lète, de mu lète, to hassìsi pu puliète/ Ditemi gente ditemi, l’hascish dove lo vendono/

To pulùn i dervisàdes, stus epàno machalàdes/ Lo vendono i dervisci, nelle piazze dell’alto borgo/

Il prezzo dell’hascish dipende dalla qualità e sicuramente dalla caccia che la polizia dà ogni volta ai commercianti. Un hassiklìs non si dispera se non può trovare o comprare hascish. Semplicemente sente che gli manca qualcosa ma poi trova sempre qualche amico che gli fa fare un tiro. Tre o quattro tiri ben fatti possono bastare.

Ad un hassiklìs di lungo tempo bastano tre o quattro tiri ben fatti per sballare. Il fumo respirato si tiene a lungo nei polmoni e questo provoca tosse secca. In pochi secondi si manifestano i primi segni dello sballo. Inizialmente faccia bianca, battito debole e dopo tachicardia, fischi nell’orecchio, senso di rilassamento, sete, bocca secca. Il peso corporeo sparisce, il tono muscolare è alto. Chi ha fumato vola con la fantasia. Desidera ballare danze sensuali. Senza perdere la coscienza del mondo, dimentica le cose da fare, e vola verso un mondo nuovo, dove esiste un’altra vita piena di bellezza e godimento. 

Le tristezze si dissolvono, i pensieri si realizzano automaticamente, una stimolazione dei desideri che produce benessere. Immagini nascoste si ripresentano, desideri rimossi, milioni di colori, un caleidoscopio di suoni, armonia universale, un sorriso solitario. Immagini fantastiche, battiti d’ali di seta, proiezioni fantasmagoriche, soprattutto erotiche, si dipanano davanti agli occhi. Assorbimento totale, lo sguardo fisso verso un punto-zero, immobilità per paura del dissolversi della dolcissima e avvincente visione. Alla fine arriva un sonno tranquillo, sogni dolci e il risveglio con piacevoli ricordi.

In apparenza la vita dell’hassiklìs assomiglia a quella dei non fumatori, una vita comune a tutti. L’hassiklìs è un soggetto tranquillo e rilassato. Anche se ci sono tesi contrapposte, l’hassiklìs non offre nulla alla società, anzi ne è un parassita. L’hassiklìs è incapace di creare qualunque cosa. Principalmente assorbe, succhia. Ogni uomo sensibile e spirituale deve essere un nemico convinto degli hassiklìdes.

§. Le droghe pesanti

Oltre all’hascish esistono anche altre droghe cui fanno riferimento e certe volte decantano, Baudelaire, Kavadìas, Lapathiòtis, Papanikolàou ed altri. La più famosa è l’oppio, miconio afioni, che è il prodotto di un tipo di papavero (miconio ipnofora), conosciuto sin dall’antichità, che in Grecia cresce spontaneo in Tracia e Macedonia. L’oppio viene mangiato o fumato dalle persone libere da pregiudizi. In Grecia tempo fa le madri davano afiòni, tisana di papavero ai bambini per non piangere, ma l’oppio era sconosciuto come narcotico, droga vera e propria. Nell’esodo silenzioso dall’assedio turco della città di Missolungi, si racconta che le madri hanno fatto bere afiòni ai bambini cosicché i turchi non li potessero sentire. 

La modalità di utilizzo dell’oppio è complessa: nell’estremo Oriente lo fumano sdraiati, usando tutta una serie di strumenti come la pipa, il caminetto, lo spiedo, il coltellino, e i canti popolari cinesi riferiscono le regole per fumare bene l’oppio. Proprio questa difficoltà tecnica che ha portato al successivo uso di alcaloidi (acido miconico, morfina, tebaina, papaverina, codeina, narcotina) e di sottoprodotti della morfina (eroina, peronina, apomorfina), quindi in senso moderno alla droga.

Fra i narcotici di questa categoria hanno avuto una grande diffusione la morfina e l’eroina, ed anche la cocaina. La morfina si inietta. Risulta che metà dei morfinomani sono medici, mogli di medici, infermieri, studenti di medicina, addirittura ostetriche.
L’eroina si inietta, si può anche inalare con un tubicino e mangiare; è tre volte più tossica della morfina ed è stata usata per la prima volta nel 1889.

La cocaina deriva dalle foglie di una pianta sudamericana, la coca appunto, utilizzata dagli indigeni per resistere alla fame, al freddo e alla sete. Queste sono le droghe “tremende” che a differenza dell’hascish creano dipendenza nel consumatore, hanno bisogno di terapia specifica soprattutto per la disintossicazione e sono molto costose, distruggono in modo veloce ed irreversibile l’organismo umano. I tossicomani, come gli alcolisti, si distinguono a prima vista. Invece i fumatori di hascish non sono facilmente riconoscibili. E ancora: l’alcool e l’eroina distruggono direttamente. L’hascish invece consuma in modo laterale, inaspettato, invisibile. Istupidisce, addormenta, porta al sonno dello spirito. In Grecia gli hassiklìdes segnalati sono circa duemila. Il restante dei tossicomani non supera i 500. I tossicomani maschi sono 20 volte più delle femmine. I tossicomani chiamano se stessi presàkides, presàkia. L’LSD non ha trovato seguaci.


Penso che i paragrafi 8, 9 e 10 presentino in modo conciso, il tema dell’hascish-droghe come lo ha visto uno scrittore diviso, contraddittorio. Oggi ritorno sullo stesso tema, restando lo stesso scisso. Nel frattempo le droghe si sono diffuse enormemente anche nel nostro paese. Ultimamente, T. Gricci-Milliex in una sua critica ha applaudito alla mia posizione sulle droghe. Non ha sospettato la mia scissione. Forse è stata influenzata dalla mia ultima frase del paragrafo 9: “ogni uomo sensibile e spirituale deve combattere contro gli hassiklìdes”. Tatiana deve sapere che questa frase non esisteva nel mio manoscritto, che l’ho aggiunta quando era ormai in tipografia. Quando stampavo, illegalmente nel 1968, il testo Rebètika Tragoùdia, ero veramente terrorizzato. Rileggo freddamente questa frase e mi pare una frase vergognosa e perciò eccezionalmente responsabile. Non cerco più di fuggire davanti alla contraddizione. Sarebbe inutile. Anzi penso che ogni antinomia prometta nuove idee.Oggi conosco qualcosa in più sull’hascish. Non condanno nessun hassiklìs, non spingo nessuno a smetter di fumare, non spingo neanche nessuno a farlo. L’hascish in quanto tale è più innocente di una caramella. Per questo io lo chiamo santo. E ancora lo chiamo così perché è dolce come il miele, più dolce del seno materno. Dalla sostanza si spande un tale piacere che è impossibile resistergli. Nello stesso tempo mi rendo conto di cosa ne seguirà e prevedo ciò che succederà con le droghe pesanti. Così continuo a tenere una posizione contraddittoria nei confronti del problema, morale e amorale insieme.



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